Una storia dai manicomi di oggi

Gentile concessione Psyche.it, (c) 2006 

 lunedì 06 marzo 2006

Un caso vero per parlarvi della legge 180/78 il dogma della classe al potere in Italia.


La credenza che l’elite vuole, e che spaccia come una droga a basso costo a tutti coloro i quali si emozionano per ogni caso pietoso, sopraffatti da commozioni indotte e da psicodrammi preconfezionati, pronti a scendere in piazza per difendere presunti diritti violati, ma ignari che alle loro spalle si consumano delle vere orge di potere.
La legge 180/78: la muraglia cinese, un enorme bastione di discorsi fumosi sui nuovi doveri, su presunte nuove forme sociali da istituire, su coscienze rischiarate dal bagliore che sprigiona il nostro ordinamento giuridico e su trasformazioni collettive mai sopraggiunte.

Noi riteniamo poco etico che pazienti, medici e familiari debbano continuare a marcire nelle condizioni che descrive di seguito il nostro collega.

Noi riteniamo immorale che la psichiatria sia sottratta alla medicina e sia diventata una questione di difesa ideologica di verità indiscusse ed incontrastabili.

Noi riteniamo scandaloso che le carenze del servizio pubblico (carenze volute segnatamente dalla legge 180/78) abbiano costituito la fortuna della cliniche e delle comunità private.

Noi riteniamo indecente (alla luce di numerose sentenze) che debba essere la magistratura ad intervenire per dirimere i dubbi su come dovrebbero essere gestite le situazioni nella cosiddetta salute mentale. Il problema è che probabilmente i magistrati non sanno che noi psichiatri lavoriamo come lavorerebbe un chirurgo al quale venisse dato un bisturi e poi lo si buttasse per strada e gli si dicesse: “ora vai figliolo, fai i tuoi interventi sul marciapiede!”.

 

La storia del signor C.

 Il padre di C. ha informato il Giudice Tutelare, gli psichiatri della UOSM di M. dove il figlio vive attualmente e gli psichiatri della UOSM di N., luogo di residenza del figlio, che C., affetto da un disturbo psichiatrico ed interdetto, vive in stato di grave abbandono.

Ha perciò chiesto che il figlio fosse inserito in una comunità terapeutica.

I sanitari della UOSM di M., una città a circa 60 chilometri da N., hanno detto, però, che non possono offrire la copertura economica e che deve essere l’ASL di residenza a garantirla.

Pertanto il Giudice ha incaricato i sanitari dell’ASL di residenza di trovare una comunità per C..

Il padre riferisce che il paziente vive in una casa in pessime condizioni igieniche, con gli infissi rotti (che ha distrutto durante una crisi), il materasso bruciato dalle sigarette, che è trascurato nell’igiene personale, è dimagrito, si alimenta male e conduce una vita isolata. Inoltre il figlio si sente perseguitato da tutti, ha frequenti crisi di collera verso il padre e la sorella, unici suoi familiari, e talvolta è aggressivo verso di loro o verso se stesso o sfoga la sua aggressività verso gli oggetti. Infatti, una volta ha aggredito e ferito il padre, per cui è stato recluso presso l’OPG di …, e numerose volte ha tentato il suicidio. Il padre ha riferito di temere sia per la vita del figlio, sia per la sua sicurezza e per quella della figlia e della nipote di appena 2 anni (figlia della sorella di C.), essendo il paziente potenzialmente aggressivo.

Molto raramente e solo per pochi giorni o poche ore, il paziente viene a N. dove abitano la sorella con la figlia di due anni e il padre; poi fa subito ritorno alla sua casa a M.. Durante i suoi brevi periodi di permanenza a N. i familiari chiedono l’intervento della nostra UOSM di N. per visite mediche di controllo e per la terapia domiciliare (perché il paziente non la assume regolarmente di sua volontà). Spesso i familiari ci chiamano allarmati perché spaventati dalle sue esplosioni di collera, riferiscono di essere incapaci di gestirlo e di vivere con lui e temono che possa diventare violento verso di loro o verso la bambina di 2 anni. Il padre anziano va a trovarlo quasi tutti i giorni a M. per aiutarlo nelle pulizie personali e della casa e per farlo mangiare, ma il figlio spesso rifiuta di mangiare perché teme che il cibo sia avvelenato e talvolta caccia fuori di casa il padre.

Allo stato non è possibile una convivenza con i familiari a N.. I familiari sono letteralmente sfiniti, spaventati e disperati, in modo particolare il padre che è anziano e malato e più volte ha chiesto aiuto fra le lacrime, mentre la sorella deve accudire da sola (non è sposata) la figlia di 2 anni ed è costretta ad andare a lavorare.
Il paziente è attualmente seguito, da vari anni e con regolarità, dalla UOSM di M. con terapia farmacologica domiciliare e controlli medici programmati. In passato l’UOSM di M. ha anche tentato di ospitarlo in una struttura residenziale e in una comunità terapeutica, ma una volta è scappato e altre volte si è rifiutato di restare. Nonostante le terapie praticate dalla UOSM di M., in maniera appropriata e con regolarità, persistono, però, gravi sintomi psichiatrici perché trattasi di un grave disturbo schizofrenico che risponde solo parzialmente alle cure anche massicce ed appropriate che riceve.

Il signor C. è conosciuto da questa UOSM di N. dall’estate del 2004 durante quei rari periodi in cui viene a N.. Il paziente è affetto da un Disturbo Schizofrenico di tipo paranoideo, di grado grave, a decorso continuo, resistente ai trattamenti farmacologici. In particolare presenta i seguenti sintomi: deliri di persecuzione, allucinazioni visive e uditive, comportamento grossolanamente disorganizzato, alogia, grave disfunzione sociale e lavorativa, episodi di eteroaggressività, tentati suicidi. Per tale disturbo ha subito numerosissimi TSO. Durante le sue brevi permanenze a N. non ha mai manifestato, però, episodi acuti che abbiano richiesto il ricovero. Pertanto, visto che il paziente è incapace di provvedere ai propri interessi, a settembre 2004 è stata presentata domanda di pensione di accompagnamento e domanda di interdizione attraverso certificazioni rilasciate dal sottoscritto. Dopo circa un anno e dopo regolare procedimento il paziente è stato interdetto ed è stato nominato tutore provvisorio il padre.

Il giudice tutelare, avendo rilevato l’incapacità dei familiari di accudire il paziente, avendo preso atto che il paziente è incapace di provvedere ai propri interessi per un disturbo psichiatrico, avendo considerato che il paziente è interdetto e il tutore ha l’obbligo di provvedere agli interessi del paziente anche di tipo medico, avendo considerato che durante gli episodi acuti esiste un rischio concreto e non trascurabile che il paziente metta in atto comportamenti etero o auto aggressivi, ha chiesto di elaborare un progetto terapeutico per il paziente che tenga conto di tutti questi aspetti. Successivamente il Giudice emetterà regolare disposizione per l’adempimento del progetto.

Pertanto, ho contattato telefonicamente il collega della UOSM di M. in data ……. e, dopo un colloquio di circa mezz’ora, si è giunti alla conclusione che il paziente può beneficiare di un trattamento riabilitativo in una comunità terapeutica della durata di 6 mesi o 1 anno.

Allo stato non sembrano attuabili altri interventi se non una ipotetica assistenza giornaliera di personale specializzato presso la residenza del paziente che provveda anche ad assisterlo materialmente, progetto evidentemente impraticabile, allo stato attuale, per carenza di risorse.

Nel proporre il progetto terapeutico riabilitativo in comunità ho dovuto valutare anche la potenziale pericolosità del paziente: i familiari riferiscono che il paziente è potenzialmente aggressivo, qualche volta si è sentito perseguitato dalla nipote di 2 anni, che in passato ha ferito gravemente il padre e per questo motivo è stato recluso in OPG.

La legge stabilisce, infatti, che il medico ha l’obbligo di mettere in atto tutte quelle condizioni che impediscono il verificarsi di eventi lesivi per il paziente e per terzi. Questa nostra responsabilità è stata recentemente ribadita anche da una sentenza del Tribunale di Bologna (27/01/06) che stabilisce: “il sanitario ha l’obbligo di mettere in atto la cura appropriata al fine di scongiurare, dal punto di vista eziologico, le condizioni positive dell'evento lesivo per il paziente e per terzi, e, allo stesso tempo, di attivare le condizioni impeditive del medesimo, approntando un sistema di cautele e precauzioni idoneo a scongiurare il verificarsi di eventi dannosi o pericolosi all’accrescersi dei rischi”. D’altra parte, però, la legge vigente non prevede interventi terapeutici obbligatori prolungati o per prevenire la pericolosità verso se stessi o verso altri, ma solo di trattare patologie acute e gravi che richiedono interventi urgenti.

Bisogna aggiungere anche che la pericolosità del paziente è strettamente legata agli episodi di scompenso, mentre durante i rari episodi di relativo compenso tale pericolosità è molto ridotta. Da ribadire, inoltre, che il numero di persone affette da disturbi psichiatrici e potenzialmente pericolose verso se stesse o verso gli altri costituiscono l’eccezione e non la regola e che la frequenza di gesti etero-aggressivi nelle persone affette da disturbi psichiatrici è uguale a quella nelle persone non affette da disturbi psichiatrici.

Pertanto l’unica soluzione a questo apparente paradosso è un progetto terapeutico da svolgersi in comunità che ha, appunto, il duplice scopo di curare il paziente e di prevenire eventuali eventi lesivi per il paziente stesso e per la sua famiglia. L’alternativa, attualmente impossibile da realizzare, è un’assistenza domiciliare giornaliera intensiva.

Ma l’ingresso in una comunità è tutt’altro che semplice. Le comunità generalmente fanno una valutazione del caso e decidono se possono trattare o meno un paziente, sulla base delle risorse che hanno a disposizione (numero di posti letto, numero di personale, addestramento del personale ecc.). Tutte le comunità, invece, non accettano pazienti che non esprimono il proprio consenso alla terapia riabilitativa.

Altro aspetto importante da considerare è il “dopo-comunità”. Se la comunità in questo momento è utile per recuperare delle abilità che attualmente sono gravemente compromesse dalla malattia, all’uscita dalla comunità sarà necessario inserire il paziente in programmi riabilitativi territoriali nel  territorio dove abitualmente risiede. Ad esempio, dovrebbe ricevere interventi socio-riabilitativi in regime semiresidenziale in Centro Diurno o interventi terapeutico-riabilitativi in regime residenziale in Struttura residenziale, con intensità assistenziale sanitaria a fascia oraria, sulle 12 ore o sulle 24 ore, a seconda delle necessità.Infatti, senza un progetto terapeutico da attuare all’uscita della comunità sarebbe del tutto privo di senso il programma riabilitativo. Ma, allo stato attuale, gli interventi socio-riabilitativi territoriali o domiciliari sono fortemente carenti.

In conclusione il signor C. e i suoi familiari sembrano destinati all’abbandono se non saranno risolti tutti gli ostacoli che attualmente impediscono di fornire al paziente l’assistenza di cui necessita.