LETTERA DI UN FAMIGLIARE DA PALMANOVA (UD)
Scrivo a proposito del caso Cognetti, che ha sollevato numerosi interrogativi e interventi di cittadini, psichiatri e giornalisti sulla stampa..
L'istituto del trattamento sanitario obbligatorio, previsto dalla legge 180 (legge innovativa ed esportata in mezzo mondo) come dovrebbe essere noto, viene applicato o dovrebbe essere applicato solo in caso di vera emergenza e come soluzione estrema per sottoporre alle cure le persone non consenzienti. Tale trattamento è oggetto di recenti proposte di modifica provenienti da più parti; in tutta evidenza la legge 180 non ha certamente legiferato con il successo tanto decantato da decenni circa questo genere di trattamenti e le risposte arrivano tardivamente e dopo molti anni di vuoto giuridico e interpretazioni del tutto discutibili.
In primis si potrebbe affermare che il caso di per sé ha fatto scalpore trattandosi di un trattamento involontario disposto verso una persona di una certa levatura, mentre altri numerosi, simili casi, passano da una quarantina d'anni inosservati o meglio ignorati e sono all'ordine del giorno.
Il mio parere personale di famigliare è che questi trattamenti nella prassi medica riguardano esclusivamente malati psichiatrici e non avvengono per tutte le altre discipline medico-sanitarie. Un motivo ci sarà, chiaramente, legato al fatto che una persona affetta da disturbo psichiatrico acuto non si trova in grado di comprendere cosa fa e non ha coscienza della sua malattia, Viene per così dire "arrestata" con una odiosa ma purtroppo necessaria procedura che vede il coinvolgimento di forze dell'ordine e spesso la mancanza della figura di un vero e proprio mediatore capace di convincere la persona ad accettare un ricovero.
Ci si chiede allora cosa dispone la legge 180 in merito e, alla luce di questi fatti, come mai non c'è mai stata alcuna modifica di questa prassi nel corso degli ultimi 40 anni. Infatti si parla tanto di salute mentale, trattamenti volontari e obbligatori, cure con l'uso smodato di psicofarmaci, abusi e così via, ma il comune cittadino e i giornalisti hanno serie difficoltà a comprendere quali siano le reali disposizioni in merito.
Va da sé che le risposte le troviamo in un autorevole testo "La responsabilità professionale dello psichiatra" di O. Greco R. Catanesi, ed. Piccin, testo che spiega in dettaglio i tanti se e perché della legge 180. Preciso che il testo risale all'anno 1990 e qualcuno potrebbe obiettare che è superato. Ma è il testo che "ha dettato legge" fino ad oltre il nuovo secolo e interpreta i fondamenti della legge 180. E' preceduto da una Introduzione di B. Altamura, giurista triestino a quel tempo ovviamente vicino agli ambienti di Franco Basaglia.
Dopo adeguata dissertazione (pagina 66) su chi debba intervenire in un TSO si riporta il caso d'esempio di un cardiopatico che, aggressivo, dovrebbe richiedere, oltre l'impiego di forza pubblica, anche la presenza di un cardiologo. Secondo l'autore ".... a nostro avviso di fronte a un soggetto che manifesta tale aggressività, che eserciti della violenza (...) deve essere previsto un intervento delle forze di polizia, uniche ad avere la facoltà e dovere di intervenire in tali frangenti". E su questo concetto si sono basati molti psichiatri per declinare la loro presenza in caso di "arresto" del paziente. Prosegue il testo con " è doveroso sottolineare (..) l'inopportunità della partecipazione dello psichiatra a tali operazioni". Tale teoria, come si evince dai successivi passi, è sostenuta dal fatto che l'intervento obbligatorio in questione "potrebbe fornire al paziente una immagine distorta del ruolo dello psichiatra" e "minare all'origine la possibilità di instaurare un proficuo rapporto (ndr. terapeutico) compromettendo quella necessaria relazione fiduciaria che rappresenta la condizione indispensabile per un positivo riscontro terapeutico".
Per farla breve, se lo psichiatra o operatore è presente al TSO, viene meno il rapporto terapeutico, concetto usato anche in altre parti del testo per giustificare mancati interventi.. E il cardiopatico, diciamolo chiaramente, non è "fuori di testa"; si tratta di situazioni fondamentalmente differenti e il paragone non sussiste, anzi è piuttosto ridicolo e suona come una sorta di alibi per sottrarsi alle responsabilità.
Mi rivolgo ora ai familiari che come me hanno avuto a che fare con un TSO.
E' sulla base di questo concetto (che io da famigliare trovo assurdo) che molti TSO trovano l'insoddisfazione dei famigliari se non la denuncia presso la stampa su come avvengono i trattamenti involontari, senza sapere in pratica cosa dispone la legge 180 in merito.
A mio avviso lo psichiatra invece dovrebbe essere presente e, se proprio si corre il pericolo di inficiare il famoso rapporto terapeutico, dovrebbe partecipare obbligatoriamente al TSO un altro psichiatra o una sorta di figura di "mediatore", tutt'ora non prevista e pertanto inesistente. Ovviamente svolgendo un TSO con queste modalità si scarica tutto il peso di un possibile consenso da ottenere anche in extremis a impreparate forze dell'ordine che sanno utilizzare quasi esclusivamente metodi coercitivi per raggiungere il risultato.
Idem per il trasporto del paziente presso un servizio di diagnosi e cura, che il testo tra "se e ma" vorrebbe delegare in toto alle forze dell'ordine in luogo dei sanitari.
In tutte queste seppur parzialmente valide dissertazioni si perde di vista una questione importante, ovvero che la persona sottoposta a un trattamento involontario, è soggetta per legge ad una attività di convincimento, quindi salvo casi eccezionali, il TSO di norma avviene o dovrebbe avvenire sempre come come ultima ed estrema risorsa.
Ancor di più si perde di vista una importante questione, ovvero che per numerose patologie psichiatriche la persona si può trovare senz'altro in pericolo per se stessa, rifiutare le cure fino ad esprimere comportamenti contrari alla legge che poi a sua volta paga in termini di condanne penali per reati commessi e le povere famiglie devono sopportare le spese legali oltre al dolore per l'accaduto. Sembra di capire che nel corso degli anni tutti si siano dimenticati che molti pazienti psichiatrici non hanno coscienza della propria malattia nè delle conseguenze cui vanno incontro.
Per fortuna non tutti gli psichiatri o servizi aderiscono a queste strampalate teorie che stanno alla base della legge 180.
Poi c'è il ricovero presso un servizi di diagnosi e cura. Nella mia triste esperienza ho registrato almeno tre ricoveri di mio fratello uno dei quali era stato disposto non presso un diagnosi e cura bensì in una struttura dotata di medici psichiatri e operatori (diciamo una sorta di residenza alternativa).. Si fa tanto appello al fatto di non operare alcuna contenzione meccanica o farmacologica senza però dire chiaramente quali sono le alternative. Scontrarsi contro i farmaci e la contenzione va bene, come va bene per far notizia senza però scendere nei dettagli. Nel mio caso dopo un TSO la persona viene accolta in questo piccolo repartino e dopo una giornata la sera ricevo una telefonata da parte del medico che segue M., tutto agitato e preoccupato perché mio fratello si è allontanato dalla struttura". Mi chiede di raggiungere la struttura e aiutarlo a trovare e convincere L. a rientrare. Per fortuna dopo qualche ora la cosa si risolve. Mi chiedo ancor oggi, giustamente, come sia possibile dichiarare così pomposamente che i reparti dovrebbero rimanere a "porte aperte", quale sia il miracolo avvenuto nel frattempo e se sia possibile applicare a tutti i pazienti (in stato acuto e non in sé) quanto enunciato al fine di accoglierli presso un servizio che pratica metodi coercitivi.
Circa la somministrazione di farmaci "pesanti" lo sanno tutti che è una comune prassi dei servizi Diagnosi e Cura, perché lì di norma vengono ricoverate persone in grave stato confusionale e per qualche giorno vanno sedate per bene. Non basta la parola gentile e la carezza, purtroppo le cose stanno in questi termini, piaccia o meno.
Tornando a M. dopo qualche giorno faccio visita al servizio e lo trovo in una pozza di sangue; nessun operatore in giro, lui aveva strappato la flebo dal braccio. Ecco che il familiare in questi casi dovrebbe procedere sempre a reclami e denunce, con possibili ritorsioni da parte del medico. Per noi familiari tutto questo non è semplice, non solo per i pazienti; gli psichiatri declinano le responsabilità al fine di mantenere il rapporto terapeutico: e se il TSO viene chiesto da un famigliare, cosa accade poi a casa?
Un altro caso del quale sono venuto a conoscenza, di una persona affetta da un disturbo ossessivo, ricoverata contro la sua volontà, questa esigeva in ogni momento della giornata di comunicare con l'esterno via telefono solo per convincere il suo compagno che la stavano maltrattando (non era vero) pur di uscire dalla struttura e sottrarsi alle cure. Ed è capitato anche a me, quando M. chiamava ossessivamente e ripetutamente, giorno e notte, per lamentarsi (a causa della malattia) di qualcosa di inesistente. Ad un certo punto gli operatori dovevano impedirgli di telefonare anche per evitare di disturbarci ad ogni ora.
Ovviamente ai pazienti ricoverati vanno assicurati tutti i diritti, ma spesso c'è purtroppo un limite da porre ai loro diritti.
Giustamente i diritti spettanti alle persone sottoposte a TSO vanno ampliati nel loro interesse (come afferma Sospsiche.it nel recente MANIFESTO PER LA SALUTE MENTALE) per garantire di poter comunicare all'esterno e con la figura di un "garante per la salute mentale", figura indipendente che possa chiarire se c'è abuso o meno e ottenere patrocinio legale gratuito.
Tornando al caso Cognetti, sebbene la coercizione non sia ben regolamentata (e sarebbe necessario farlo) ma ammessa al fine di evitare un danno a se stesso, nessuno impedisce al noto scrittore di aprire una denuncia verso i sanitari per la presunta malasanità dichiarata, anzi a mio avviso più che rivolgersi alla stampa, dovrebbe procedere in tal modo.
Comunque circa la contenzione meccanica la prassi andrebbe limitata e ben legiferata, con obbligo di comunicare il trattamento e altre garanzie per la persona; penso non si possa eliminare totalmente questa prassi come chiede sospsiche.it in un recente articolo . Nemmeno la cosiddetta contenzione psicofarmacologica potrà essere mai eliminata; molti si riempiono di queste parole (e di vanto di poter curar senza psicofarmaci) ma dovrebbero frequentare un reparto diagnosi e cura per rendersi conto che non solo con le parole, con l'affetto o l'accoglienza in ambienti specificatamente studiati (colori, arredamenti, ecc.) si può curare o trattare una persona in stato di grave crisi e fuori di sé.
Semmai va allontanato o sancito il personale che ricorre a questi metodi per pigrizia o inerzia o perché, come si nota in casi recenti, non ci sono abbastanza operatori per seguire correttamente e controllare ogni paziente.
Purtroppo a suo tempo anche in un Centro della provincia mi sono trovato a chiedere aiuto in un momento d'urgenza e sentirmi rispondere da un operatore svogliato e quasi seccato che il medico psichiatra non c'era mentre lui tranquillamente giocava al solitario al PC. In un Centro, come tanti altri, dove gli infermieri di altre specialità scappavano perché non facevano più le notti e battevano fiacca a piacimento. C'è' anche questo, in psichiatria.
Infine, il ritornello si ripete: se un paziente fugge da un servizio di Diagnosi e Cura ci si stupisce e preoccupa di cosa possa commettere e ci si chiede come sia potuto accadere, le porte dovevano restare chiuse,
Quando invece le porte sono chiuse ci lamentiamo di diritti violati, abusi, contenzioni e le vogliamo aperte.
Dove sta la verità e quale è il punto di equilibrio?!?
A.Z. famigliare da Palmanova (UD)