Trentino: lo stato dei servizi psichiatrici

Relazione del Trentino - Audizione XII Commissone, gennaio 2006

 

LO STATO DEI SERVIZI PSICHIATRICI IN PROVINCIA DI TRENTO

Il punto di vista dell'A.R.I.S.

 

 

In Trentino non esiste “libertà di cura”

Tra le varie branche della medicina, la psichiatria è indubbiamente quella le cui basi scientifiche sono meno solide: dilaniata da correnti e modi di interpretare i disturbi mentali e le loro cause secondo modalità contraddittorie, non dispone di strumenti oggettivi su cui basare le proprie diagnosi, divisa anche sulle modalità terapeutiche più adatte (farmaci, inserimento socio-lavorativo, psicoterapie di orientamenti diversi e spesso incompatibili, ecc.).

In questo quadro, sembrerebbe logico che il paziente e la famiglia potessero avere adeguata informazione e almeno una certa libertà di scelta sul tipo di struttura a cui rivolgersi e sul tipo di cura da intraprendere.
In Trentino, viceversa, la psichiatria pubblica non lascia alcuno spazio alla libertà di scelta. Le poche strutture private presenti vengono volutamente ignorate, la nascita di nuove strutture in grado di ampliare l’offerta terapeutica è fortemente avversata.

 

Tre esempi concreti

a) Per molti anni la nostra Associazione ha caldeggiato la creazione di strutture residenziali riabilitative, fino ad ottenere dalla Provincia la costruzione di una di queste, in loc. Man, presentando anche un proprio progetto di gestione finalizzato alla riabilitazione di pazienti giovani. Due anni fa, senza nemmeno consultarci, il progetto è stato “annesso” da parte del servizio di psichiatria di Trento, che l’aveva sempre avversato. Evidentemente, avere in città una struttura con orientamento terapeutico indipendente da quello ufficiale dava molto fastidio… Vi sono stati inseriti pazienti cronici, snaturando completamente il progetto originale.

b) In val di Non era stata aperta una struttura denominata “Lahuen”, ivi trasferita dall’Alto Adige, dove aveva ottenuto risultati lusinghieri tramite la riabilitazione lavorativa e senza l’uso di farmaci. Dopo pochi mesi la Provincia ha tolto al “Lahuen” lo statuto di struttura convenzionata, obbligandolo alla chiusura. I motivi addotti erano – ovviamente – di natura burocratica. Tuttavia è evidente che né l’innovatività del progetto né l’interesse delle famiglie erano visti di buon occhio. Se fossero stati tenuti in qualche considerazione, e ce ne fosse stata la volontà politica, i problemi burocratici si sarebbero potuti superare.

c) Molte famiglie chiedono la consulenza della nostra Associazione nel cercare un luogo adatto per curare un proprio congiunto per un certo periodo di tempo. Il nostro interessamento avviene attraverso l’intervento qualificato di una psicologa, che – nei casi in cui lo ritiene opportuno – fa da tramite per ottenere dal servizio pubblico l’autorizzazione al ricovero in strutture convenzionate. Ebbene: il servizio pubblico oppone forte resistenza a queste richieste, negandole, oppure concedendole solo dopo lunghe e defatiganti trattative.

In questo contesto non è certo possibile parlare di libertà di cura.

Questa è riservata alle poche famiglie facoltose in grado di pagarsi di tasca propria ricoveri spesso lunghi e costosi. Un sano interscambio tra pubblico e privato e la diversificazione dell’offerta anche nell’ambito pubblico, senza i veti attualmente presenti, produrrebbe sicuramente un miglioramento qualitativo dei servizi, poiché sarebbe la stessa utenza – con la propria scelta – a premiare il tipo o i tipi di servizio che garantiscono i risultati migliori.

Una rete di servizi (piena di buchi)

Almeno in teoria, oggi tutti più o meno concordano che le patologie mentali necessitano di una rete di servizi territoriali di vario tipo, appunto per rispondere alla varietà dei bisogni degli utenti. Non è più concepibile un’assistenza psichiatrica uguale per tutti. Il vecchio manicomio per la custodia dei malati è morto: oltre che essere disumano e alienante, oggi, in un’ ottica di cura e riabilitazione, non avrebbe più alcun senso, così come non sarebbe serio proporre per tutti la sola assistenza ambulatoriale.


Quanto può dirsi realizzata oggi, in Trentino, questa rete di servizi e quanto può dirsi efficiente?
Naturalmente, anche da noi si è cominciato a costruire, assai faticosamente, dei servizi psichiatrici e socio-assistenziali più moderni ma in alcuni settori questa rete presenta ancora dei “buchi” molto vistosi, nonostante siano passati oltre 25 anni dall’entrata in vigore della legge 180.


Il primo presidio di assistenza psichiatrica pubblica sul territorio è il C.S.M. (Centro di Salute Mentale), cui fa capo, innanzi tutto, l’attività ambulatoriale. Questo tipo di servizio è sufficiente per pazienti con un elevato grado di autonomia, che hanno alle spalle una famiglia e un’attività lavorativa. Mentre i centri principali della provincia (Trento, Rovereto, Arco-Riva, Pergine, Borgo…) dispongono di servizi ambulatoriali che assicurano continuità e stabilità del personale, le zone periferiche della nostra Provincia presentano un servizio che, quando c’è, è assai più discontinuo, con un forte turn-over del personale. In questi casi, i disagi per gli utenti si fanno sentire anche in modo pesante.


Spesso i pazienti non dispongono di una famiglia, oppure la famiglia non è in condizione di assisterli, oppure ancora non è opportuna la permanenza continua del paziente in famiglia a causa di forti conflittualità in atto. In questi casi l’assistenza ambulatoriale non è più sufficiente; occorre la disponibilità di “alloggi protetti”. Sono i cosiddetti gruppi appartamento (o case famiglia) dove gruppi di pazienti vivono con il supporto di personale specializzato. Il personale può essere presente per poche ore al giorno (bassa protezione, per pazienti relativamente autonomi) o fino a 24 ore al giorno (alta protezione). Anche gli appartamenti protetti sono presenti, da anni, nei centri principali della provincia, ma sono molto carenti o ancora del tutto assenti nelle zone periferiche. Laddove le famiglie non ce la fanno sono guai seri. In molti casi persone ancor giovani finiscono impropriamente ospiti di case di riposo!

È ben noto che il lavoro è un formidabile strumento di realizzazione personale e di riabilitazione. Spesso i malati hanno anche un elevato grado d’invalidità che impedisce loro un lavoro pienamente produttivo. Per questo sono nate cooperative sociali no profit che forniscono occasioni di lavoro protetto. Il paziente, che vive in famiglia o in un alloggio protetto, vi si reca per svolgere un’attività lavorativa proporzionale alle sue capacità, con lo scopo di consolidare le abilità acquisite, guadagnando anche qualche soldo e sentendosi finalmente utile e non più un peso per la società. Il lavoro protetto può essere un’àncora di salvezza per persone altrimenti condannate all’emarginazione, ma occorre che si diffonda ancora più capillarmente, perché molte zone sono poco servite. In questo campo è encomiabile il lavoro svolto dalle cooperative sociali, dinamiche e ricche di iniziative. Per le persone con un più basso grado di autonomia personale occasioni di socializzazione e di semplici attività lavorative vengono offerte dai centri diurni, sorti un po’ ovunque in Trentino, per lo più annessi ai C.S.M.
Nel caso di crisi acute ci sono gli S.P.D.C. (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura), reparti ospedalieri psichiatrici annessi ai principali nosocomi provinciali.

Sono destinati a ricoveri di breve durata, fino alla risoluzione della crisi. Recentemente è stato chiuso l’SPDC di Mezzolombardo, il che ha procurato non pochi disagi, specialmente per i pazienti delle valli di Non, Fiemme e Fassa.
Purtroppo, per molti giovani, il ricovero in SPDC è destinato ad essere il primo di una lunga serie e l’inizio di un calvario di sofferenza che conduce ad un progressivo isolamento, alla compromissione delle relazioni socio-affettive e delle capacità lavorative.
Presso la sede della nostra associazione riceviamo spesso visite e telefonate di famiglie disperate, in cui è esploso un caso di malattia mentale grave. Ci chiedono aiuto perché, dopo il ricovero, il paziente è rispedito a casa. E dopo? In questo campo, come detto sopra, purtroppo noi possiamo fare poco, perché il sistema psichiatrico locale è “chiuso”.

 

Il grande vuoto di strutture residenziali

Qui noi tocchiamo con mano l’aspetto più drammaticamente inadeguato dell’assistenza psichiatrica trentina: la grave carenza di strutture residenziali riabilitative, anche chiamate “comunità terapeutiche” o con altre denominazioni. La terminologia è infatti ancora piuttosto vaga; è quindi importante intendersi sul significato del termine.

L’esperienza ha dimostrato che, anche dopo il manifestarsi di episodi psichiatrici gravi, vi è la possibilità d’intervenire e di ottenere risultati anche molto buoni in termini di conservazione (o rieducazione) delle capacità relazionali e lavorative. Si tratta di un lavoro complesso, interdisciplinare, in cui l’intervento sanitario è affiancato da un supporto psico-socio-assistenziale e lavorativo. Quest’importante funzione dovrebbe essere svolta, appunto, dalle strutture residenziali riabilitative, attraverso dei progetti riabilitativi individualizzati a medio o lungo termine.

È però importante intervenire al momento giusto, prevenendo il lento sgretolamento della personalità e la cronicizzazione irreversibile al quale rischiano altrimenti di andare incontro i malati, accanto al cui dramma umano c’è quello di altrettante famiglie distrutte, impotenti ad aiutare il loro familiare e costrette a sopportare pesi che non sono in grado di reggere.


Ci si chiederà allora perché, in Trentino, c’è una così grave carenza di strutture residenziali riabilitative.

Una psichiatria di retroguardia

Oltre ai problemi finanziari (dato che questo è l’anello più costoso – sia in fase di realizzazione, sia in fase di gestione – nella rete dei servizi psichiatrici) occorre mettere in conto le forti resistenze che certa psichiatria continua ad opporre alla residenzialità psichiatrica. Nell’intervista rilasciata al TG regionale del 10 ottobre 2002, ad esempio, il dott. De Stefani – primario del servizio psichiatrico di Trento – ha sostenuto che, per quanto funzionali ed accoglienti possano essere, le strutture residenziali ripropongono la sostanza del manicomio (sic!). A suo giudizio la malattia mentale va sempre affrontata nella “normalità” della vita quotidiana. Da notare che il dott. De Stefani è il medesimo che – in seguito – ha caldeggiato l’acquisizione della struttura di Man al servizio di psichiatria di Trento, per toglierla ad una gestione a lui poco gradita. Da quando la gestisce lui, naturalmente, ha smesso di chiamarla manicomio…
Sull’altare di una visione ideologica della psichiatria si continua a lasciare marcire situazioni insostenibili, la cui gravità viene sistematicamente minimizzata, presentandole come “soddisfacenti”, “ricche di risorse”, ecc. ecc.


C’è, insomma, la completa incapacità di rimettere in discussione modelli psichiatrici ormai vecchi e smentiti dalla realtà, di comprendere che una restitutio del malato alla quotidianità della vita è possibile attraverso un percorso riabilitativo che non sempre può compiersi all’interno della quotidianità stessa, perché richiede una presa in carico intensiva del problema da parte di più persone e di più competenze.

In attesa che siano definitivamente superati i preconcetti di questa paleo-psichiatria, molti Trentini sono costretti a cercare altrove ciò che nella nostra provincia non è disponibile, mentre le scarse comunità esistenti ospitano più che altro i pazienti cronici più gravi (vecchi e nuovi) che sarebbero rifiutati anche dalle case di riposo. Anche questo è, beninteso, un servizio meritorio, perché anche di questi pazienti è necessario che qualcuno si occupi, ma non va certo confuso con la riabilitazione.
All’uomo della strada riesce difficile capire l’opposizione pregiudiziale che ancora esiste nei confronti della residenzialità psichiatrica, opposizione le cui ragioni vanno ricercate nella storia della psichiatria italiana, influenzata dalle ideologie del Novecento.

 

Aris Trento