PRIMO INCONTRO INTELLETTO D'AMORE
Caro lettore, il 25 novembre scorso ha avuto luogo presso La Miniera di Lessolo il primo Incontro INTELLETTO D'AMORE. A detta dei partecipanti, il nome dell'evento è stato del tutto adeguato all'atmosfera di bellezza e di serenità con cui i convenuti hanno trascorso la giornata. Noi di Cura e Cultura desideriamo quindi condividere anche con te qualcosa di quella bella giornata e ti proponiamo integralmente le parole con cui accogliemmo i nostri gentili ospiti:
Cura e Cultura nasce da un gruppo di persone che hanno imparato molte cose dal prendersi cura della grande sofferenza mentale.
Hanno imparato che essa mostra in profondità e in trasparenza la natura del nostro stesso vivere, che nell'avvicinarla tocchiamo con mano la fragilità della condizione umana. Perché la grande sofferenza mentale è LA sofferenza per antonomasia. Ogni nostra sofferenza quotidiana al suo culmine sempre la lambisce: quando non ne possiamo più, diciamo sto male da impazzire, mi sembra di impazzire.
Abbiamo anche imparato che sapersi avvicinare senza paura e con amore alla follia ci apre a una insostituibile pienezza del comune vivere insieme fra noi, del vivere di tutti i giorni nella comunità sociale. Avvicinarsi senza paura e con amore alla follia ha insomma una profonda valenza politica: proprio così, politica, se la politica è l'arte del vivere insieme fra Persone nella comunità sociale.
Abbiamo imparato che prendersi cura della grande sofferenza mentale insegna a prendersi cura di ogni altra forma di sofferenza. Per questo abbiamo proposto come tema dell'Incontro di oggi proprio La sofferenza della condizione umana: non dovrebbe essere difficile, per ognuno di noi, attingere alla propria esperienza per dire una parola di testimonianza al proposito!
Abbiamo infine imparato che il male di vivere in qualunque sua forma, dalla grande sofferenza mentale alla nostra normale sofferenza quotidiana, può essere alleviato dalla bellezza, sia da quella delle grandi opere d’arte, sia da quella che ognuno di noi insegue in ogni piccolo fare, magari senza saperlo, per illuminare le sue giornate.
Dal desiderio che questo patrimonio di esperienze e di conoscenze non rimanga confinato agli addetti ai lavori nasce l'idea degli Incontri Intelletto d'Amore. Prendiamoci cura dell’umano, recita il sottotitolo delle nostre locandine. Perché dell’umano? Perché da noi, che stiamo bene e siamo ricchi, l’umano è sfruttato, è usato, è maneggiato, ma non sembra realmente amato - così scrivevamo nel primo degli articoli di VariEventuali, il quindicinale di Ivrea che ospita la rubrica omonima e che per questo ringraziamo. Il prenderci cura della grande sofferenza mentale ci ha ricordato quanto profondamente bello può diventare ogni rapporto umano se si arricchisce del prendersi cura. Perché il prendersi cura è contiguo all'amore. Almeno un poco io sono realmente il custode di te, mio fratello, perché in parte di te rispondo, perché la pienezza della tua presenza al mondo dipende anche dal mio sguardo: non soltanto, certo, ma anche. Se dico rispondere di te, non intendo rispondere di te come modo di sentirmi migliore, più buono a tue spese; né mi propongo di salvarti in nome di un’astratta carità, incurante di te, senza ascoltarti o senza vederti. Piuttosto cerco quella carità che fa sentire me sodale con te, me creatura come te, quella carità che mi ricorda che anche dal mio sguardo sempre dipende un poco lo splendore della tua presenza e che ogni mio gesto deve sapere la tua sofferenza. Nel nostro stare insieme c’è posto per tante cose: possiamo fare cose insieme, condividere, gioire e soffrire. Ma deve esserci sempre posto anche per un prenderci cura l'uno dell'altro.
Nell'Incontro di oggi vogliamo provare a congiungere, prendendole per mano, la nostra sofferenza e la bellezza della grande arte, con la quale illuminare e a riscoprire la nostra vita quotidiana, vogliamo provare a riflettere su quanto la memoria della sofferenza sia presente, o assente, nel nostro modo di stare insieme, nel nostro modo di pensarci l'un l'altro.
Alle pareti troviamo le diciotto tavole di Eugenio Gabanino sulla Commedia. Dante scriveva nell'Epistola XIII a Can Grande della Scala: “si può dire brevemente che il fine del tutto [della intera Commedia] e della parte [del Paradiso, dedicato a Can Grande] è togliere dallo stato di miseria i viventi in questa vita e condurli allo stato di felicità”. Queste parole ci dicono quanto la sua presenza qui oggi, nel nostro Incontro, sia pertinente. Nelle intenzioni di Dante la Commedia, che venne chiamata Divina solo due secoli dopo di lui, deve servire all'uomo in questa vita, qui e ora, per raggiungere la felicità su questa terra, prima della morte, non dopo.
Abbiamo articolato la nostra riflessione sulla sofferenza in cinque prospettive, associando questo tema ad altri importanti temi del vivere. Ciascuno sceglierà la prospettiva cui si sentirà più vicino. L'unico limite da rispettare sarà una certa omogeneità numerica dei cinque gruppi. In seguito, all'interno di ogni gruppo e con la presenza di due membri di Cura e Cultura, faremo soltanto ciò che ci farà sentire più a nostro agio: parlare, se ci sentiremo di farlo e avremo piacere di farlo, tacere, se ci sentiremo di farlo e avremo piacere di farlo. Non sentiamoci in dovere di fare alcunché: la vostra sola presenza qui oggi è comunque un grande dono di ciascuno a tutti gli altri, e noi organizzatori ve ne siamo fin da ora profondamente grati.
Ogni gruppo interrogherà la sofferenza nei suoi tre momenti essenziali: riconoscimento, condivisione e, certo il più problematico, accettazione.
Riconoscere la sofferenza significa per prima cosa semplicemente accorgersene. Non è mica scontato: certo, tante volte essa ci colpisce con tali mazzate che è difficile non accorgersene. Ma altre volte no, altre volte possiamo soffrire senza capire e senza sapere. Riconoscere la sofferenza significa poi anche riconoscerla come possibilità di una radicale interrogazione di sé, come la prova per definizione, che può, o no, dar luogo a una decisiva scoperta di sé. Qui riconoscere significa certo guardare bene in faccia il proprio limite, prendere atto a fondo del proprio errare, ma anche scoprire di poter attingere a inaspettate risorse. È la presa di coscienza, spesso amara, necessaria, dolorosa, è l'operazione che Dante conduce nell'Inferno. L'Inferno dantesco, se riferito alla nostra vita quotidiana, parla in fondo dei nostri momenti di disperazione, della scomparsa della speranza, dell'abisso senza fondo nel quale cadiamo se permettiamo all'amore di spegnersi dentro di noi.
Ma ogni presa di coscienza, ogni scoperta di sé sempre si traduce in nuovo modo di parlare agli altri, in nuovo modo di stare con loro. Condividere significa soprattutto parlare, mettere in comune fra noi quel bene così prezioso e così spesso sprecato che è la parola. La condivisione lenisce un poco la ferita, è passo indispensabile, tuttavia per nulla scontato, perché la morsa della sofferenza venga almeno alleviata dalla donazione di senso: la si riesce finalmente a riconoscere come intrinseca alla nostra condizione umana e vien meno l'angoscia della totale solitudine. Ah ecco, mi capita questo perché sono un essere umano, perché questo capita a noi umani, anche a te e a lui è capitato qualcosa del genere, non è una mia stranezza senza senso. Poterlo dire non è il massimo, ma è già qualcosa: condivisione significa appartenenza, legame, non sono solo, ci possiamo stringere l'un l'altro, nel mio dolore scopro il tuo amore e questo mi fa bene. Gli stessi errori-peccati di cui prendiamo coscienza nella oscura solitudine dell'Inferno, in presenza dell'amore diventano nel Purgatorio strada di luce. Non a caso solo nel Purgatorio, non prima, Dante espone la teoria dell'amore. La seconda cantica, riferita alla nostra vita quotidiana, parla di quei momenti di sofferenza nei quali non abbiamo comunque perso la capacità di amare, di sperare, di progettare, di guardare con amore.
Accettare infine, e questo certo è il passo più difficile, tante volte dobbiamo proprio convincerci che sia possibile, significa riuscire a non rispondere al mondo e alla vita con rabbia e risentimento, significa non inaridire la capacità di amare, significa non permettere alla sofferenza di rendere l'occhio opaco alla bellezza e lasciare invece che sia essa, la bellezza, a prendersi cura di noi. Il Paradiso dantesco è una sorta di fenomenologia della felicità nei vari stati possibili, dalla beatitudine all'estasi senza parole. Si riferisce ai nostri momenti di felicità, ce ne sarà pure qualcuno ogni tanto, no?
Per esempio, ne avremo uno proprio fra non molto. Dopo aver riflettuto e parlato a lungo al mattino, avremo appunto la gioia di goderci il momento conviviale del pranzo, di cui possiamo leggere in questo fascicolo l'assai promettente menu preparato da Roberta Anau. Dopo i lavori dei gruppi nel primo pomeriggio e dopo un ristoratore caffè di pausa, sarà infine la volta di ciò che le parole hanno solo avvicinato senza riuscire mai a dirlo appieno. Sarà la volta della musica. Il concerto di oggi pomeriggio, di cui avete i testi tradotti in queste pagine, si aprirà con una premonizione del giovane Mozart: ha 31 anni quando scrive il lied Abendempfindung (Sentimento della sera). Per tutta la breve vita non ha fatto altro che cantare bellezza, amore, ancora bellezza e gioia di vivere. È ossessionato dalla bellezza che porta con sé, le dita gli fanno male a forza di scrivere musica e sente che tutto presto finirà. Ma c'è tenerezza nel suo pensiero del morire, come sempre accade quando si ospita tanta bellezza nel cuore, già Mozart si raffigura il suo dialogo con chi rimarrà in vita quando lui non vi sarà più. E questo dialogo, con noi, dura da ben 250 anni! Pensiamo solo a quanto ci fa bene la sua musica, quanto abbiamo bisogno di quei modi dell'essere che essa risveglia dentro di noi. Di quale aiuto disponiamo di fronte alla sofferenza della nostra condizione, se non dell'amore e della bellezza? Mozart ci offre due momenti del risveglio dell'amore, con la figura di Cherubino nelle Nozze di Figaro. Nella prima aria, Non so più cosa son cosa faccio, il giovinetto riflette da solo sullo stupefacente miracolo che gli accade, il risveglio dell'amore nel suo corpo e nella sua mente. Nella seconda ne chiede conferma alle donne, che sanno cosa è amore, che cioè hanno intelletto d'amore. Infine, dopo il canto di gioia dell'Alleluja, le due pagine dell'Ave verum, brevissimo mottetto che appartiene all'ultima stagione di Mozart, quella per intenderci del Flauto magico, del Requiem, del Concerto per clarinetto e orchestra... le due paginette dell'Ave verum, vi dicevo, sono una breve quanto luminosa rappresentazione di una trasfigurazione. Vien da pensare alla pala d'altare di Isenheim di Mathias Grünewald, a Colmar: lo strazio del compianto sul corpo di Cristo morto della prima pagina si risolve in luce abbagliante nella seconda.
Schubert con Erlkönig (Il re degli Elfi) e Gretchen am Spinnrade (Margherita all'arcolaio), ci pone invece, quasi brutalmente, di fronte alla sofferenza della creatura. Il dramma è tutto lì, davanti a noi: la morte, nel sembiante del re degli Elfi, ghermisce il bimbo che il padre, inconsapevole fino all'ultimo, porta in braccio cavalcando nella notte. Oppure l'arcolaio nel suo ciclico movimento scandisce inesorabile il tempo mentre Margherita, una delle mille e mille fanciulle sedotte e abbandonate, certo non la prima né l'ultima, canta la sua disperata pena d'amore. È solo una pena d'amore, non una morte, ma è una pena comunque, e ogni creatura ha la sua pena.
Ma c'è la bellezza: An die Musik e Du bist die Ruh' (Tu sei la quiete – Ruhe sta per quiete, riposo, pace) cantano il suo potere salvifico, il suo farsi ponte verso un mondo più bello. Ricordiamo il nesso fra bellezza e sofferenza, così come ce lo rammenta Roberta De Monticelli: da qualche parte sappiamo che il Bello salva. Salva o rinnova una parte di noi e della nostra vita […] solo che per accorgersi di questo potere di salvezza, bisogna aver sofferto.
Alla fine del concerto e della nostra giornata operosa, verso sera, avremo la carezza di un vecchio di 84 anni, Richard Strauss, che come Mozart ha dedicato tutta la sua vita alla bellezza e che si accomiaterà da noi con Beim schlafengehen (Andando a dormire, o anche Addormentandosi) e Im Abendrot (Nel rosso di sera, o Al tramonto).
Infine ci saluteremo nel grande gruppo finale, quando ci scambieremo le riflessioni frutto del nostro incontro. Ogni gruppo avrà avuto cura, durante i lavori del mattino e del pomeriggio, di incaricare un suo membro di farsi suo portavoce per la restituzione finale, raccogliendo in brevi note l'essenziale delle testimonianze. Ascolteremo la voce di saggezza di ogni gruppo e ci daremo un arrivederci al prossimo anno. Grazie e buon lavoro.»
Cura e Cultura